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La lotta

Il complesso di forze volontarie che si chiama oggi "I Gruppo Divisioni Alpine" e che nell'ultimo periodo, decisivo della guerra di liberazione nazionale, è stato elemento di importanza risolutiva nel Piemonte, ha iniziato la sua vita in Val Maudagna (Frabosa) sul finire dell'anno 1943.

A quei tempi al Comando di quel Gruppo, che allora era banda, non v'erano notizie che di Boves e non si conoscevano che pochi nomi: Galimberti, Vian e pochi altri. Organizzazione quasi totalmente isolata dal resto del mondo, in condizioni estremamente difficili, contava pochi uomini, ma aveva in se stessa i germi vitali di tutto un movimento che si sviluppò in seguito.

Gente d'ogni posizione, d'ogni colore politico: l'alpino reduce dalla Russia, l'operaio torinese, il marinaio ligure, il professionista con l'impermeabile e le scarpe basse che sapeva a mala pena maneggiare il fucile.

Relativamente molte armi; equipaggiamento scarso.

Fu in tale ambiente che si cementò l'unione di tutti nella guerra comune.

Fu il duro sacrificio, fu il rischio, fu il sentirsi pochi, fu il sentirsi soli che dette valore ed espressione comune alle aspirazioni di tutti.

La guerra di liberazione nazionale era ancora un sogno forse troppo ardito per molti. Per quegli uomini vigili sui monti la guerra contro i tedeschi era il significato della vita stessa, e nei momenti in cui le vicende nazionali ed internazionali parevano se non escludere almeno allontanare il giorno che abbiamo da poco vissuto, questo era ciò che si diceva: "Meglio non vivere più che continuare a vivere come abbiamo vissuto".

Sulla base di questo concetto è stato estremamente facile intendersi ed operare con profitto. Forse è proprio da quelle poche parole che contenevano il programma, che nacque quella denominazione che pare ora quasi un abuso: "Esercito di Liberazione Nazionale".

Ci furono molti che non dettero la loro fiducia ad un simile progetto; o per lo meno la dettero con riserva e non completa.

Chi se ne accorse presto fu l'alto comando tedesco che si trovò a dover impegnare, a centinaia di Km. oltre la linea del fuoco, una massa imponente di mezzi militari, come se esistesse un altro fronte. Era effettivamente un altro fronte e la linea era quella ideale che passava sulle vette alpine, nei boschi, sulle rocce, e le pattuglie esploranti erano quelle che scendevano ogni giorno a colpire il nemico nel cuore, sulla pianura. Della guerra partigiana si ricorderanno forse più facilmente, anche perché di queste ultime scriveranno molti, che delle vicende grandi e definitive.

La gente che conobbe allora i partigiani conserverà nella memoria l'immagine di uomini laceri, di volti affilati, di ombre, di passi furtivi. Quei volti in massima parte sono spenti. Da essi solo, dai loro canti, dalla loro insofferenza, dal loro vero desiderio di libertà è nato tutto il movimento del quale oggi ci si vanta.

Il riscatto nazionale iniziato dai liberi spiriti che sempre lottarono contro il fascismo fu portato innanzi per l'ultima battaglia dai partigiani di quel 1 tempo che ormai è già lontano.

Val Maudagna, 12 mitragliatrici, 10 mitragliatori, 50 uomini, una coperta in media ogni due uomini, molta neve.

Il carteggio stava tutto in una tasca del Comandante, che scriveva su biglietti quadrettati la corrispondenza d'ufficio.

Regolarmente la staffetta cadeva nella neve e regolarmente quei fogli erano bagnati. "Situazione, attività, viva l'Italia". "Urgono coperte. Oggi abbiamo fatto istruzione sulle armi; speriamo che non nevichi più. Viva l'Italia". Quasi sempre di questo tenore erano i fogli. Fin dai primi momenti problema importantissimo fu l'istruzione degli uomini, sia per la mancanza di tempo, dati i numerosi lavori di sistemazione delle grange alte non adatte al ricovero di molta gente, sia perché le munizioni non abbondavano, sia per il pericolo di essere localizzati troppo precisamente.

Malgrado tutto ciò questa necessità fu risolta in modo adeguato e tutti i componenti del Gruppo furono in pochissimo tempo in condizioni di affrontare il combattimento. Si iniziò sin dai primissimi giorni il lavoro di inquadramento e della suddivisione organica della forza in relazione al terreno ed alle armi. Si creò cosi fin d'allora il classico elemento delle formazioni partigiane: la squadra con un'arma automatica.

Malgrado la neve e la deficienza quasi assoluta di materiali fu risolto il problema dei collegamenti e quello dei rifornimenti. L'organizzazione ed il quasi regolare funzionamento dei servizi furono di grande aiuto per l'instaurazione di quella disciplina del rendimento che potrebbe chiamarsi più facilmente disciplina partigiana. la disciplina degli uomini liberi che sanno obbedire senza servilismi e che sanno dire ciò che pensano quando sia necessario.

Ecco come ebbe inizio il I Gruppo Divisioni Alpine.

Da dicembre in avanti l'organizzazione tende sempre di più ad una forma stabile e via via più adatta alle esigenze della guerra.

Tutti vecchi militari ed i giovani borghesi diventano partigiani; prendono un aspetto comune. Si crea quella specie dl soldato cittadino che è il partigiano.

Ed i vari elementi che concorrono a questa creazione gli danno nell'insieme quella veste esteriore e quella mentalità che distinguono immediata mente un soldato della libertà da un altro soldato.

Fino al gennaio 1944 il Gruppo si dedica ad azioni di molestia contro i posti di blocco e caserme, ed a colpi di mano per il prelievo di armi, materiali ed equipaggiamento. Mondovì, Carrù, Magliano Alpi, Cuneo, Fossano sono raggiunti da pattuglie composte di uomini scelti e particolarmente meritevoli.

Il 14 gennaio, pochi giorni dopo l'attacco di Boves, si svolse in Val Maudagna il primo grande combattimento contro reparti tedeschi.

Non meno di 700 militari germanici fra i quali molte SS circondarono un distaccamento della Valle e dopo parecchie ore di fuoco tentarono invano di avvicinarsi alle posizioni più arretrate. Nove partigiani furono uccisi mentre rimasero imprecisate le perdite degli attaccanti.

E' precisamente in questa occasione che la gente della valle dimostrò quale fosse il suo amore per noi. Nella notte stessa, quando ancora non si sapeva se i tedeschi si fossero ritirati o meno, ogni fosso fu frugato, ogni buco nella neve fu tastato da mani ruvide di montanari. Cercavano i feriti, cercavano i morti.

I partigiani s'erano sistemati a difesa per un altro giorno di combattimento. I tedeschi se ne erano andati.

A Miroglio due giorni dopo ci furono i funerali dei partigiani caduti.

Un numero immenso di persone era presente e molte lacrime scesero sui volti di chi sentì. la voce dell'ultimo saluto che i combattenti della libertà mandavano ai compagni caduti. In questo modo nelle valli maturò quella coscienza che diede alle nostre formazioni i più bei partigiani. Fu così che di bocca in bocca trascorse sui monti ed in tutta l'Italia la leggenda partigiana che senza parole suonava più alta e più forte di ogni perfida propaganda nemica. E dalla leggenda nacque attraverso difficoltà sovrumane l'esercito partigiano che ha liberato il nord dell'Italia.

Durante i mesi di lotta alla esigenza vecchia e nuova di creare con la cacciata dei tedeschi e dei fascisti dall'Italia un istituto nazionale rispondente alla realtà storica ed alle necessità della Nazione, corrispose una maturazione politica che tende ormai a giungere in tutti gli strati.

Ci furono in vista delle varie correnti delle differenziazioni ma sul piano della cooperazione e della lotta comune ogni partigiano è stato sempre unicamente un partigiano.

Il I Gruppo Divisioni Alpine ha assunto insieme ad altre formazioni la denominazione di "autonomo". Si è definito apolitico, non perché nei suoi componenti non sia stata compresa fino in fondo, la necessità democratica di una fattiva lotta politica, ma perché ha voluto essere quasi come un legame tra tutti gli altri. Certo durante i periodi di relativa quiete sui monti erano sempre i progetti di un'Italia più bella quelli che occupavano le menti dei partigiani.

La stampa repubblicana si è invano scagliata con la sua incruenta campagna di maledizione e di maldicenza. C'eravamo affezionati, e lo siamo ancora, all'appellativo di "ribelli".

Probabilmente nessun'altra nazione è stata capace di fare ciò che abbiamo fatto noi. Noi che da tutti eravamo ritenuti dei fascisti convinti, un popolo corrotto ed imbelle che non conosceva che disfatte.

Pure il miracolo si è compiuto. Se molti dolori sono stati procurati molti ne sono stati evitati. L'amore grandissimo verso la Patria intesa come comunità di Italiani in una comunità di nazioni è stato il sentimento che insieme all'ardore di chi marcia verso le conquiste del diritto umano ha sollevato gli animi per tanto tempo.

Fine di gennaio 1944.

I superstiti di Val Maudagna si trasferiscono, dopo lungo peregrinare fra le nevi, in Val Casotto con la bandiera che ha sventolato tutto il giorno 14 sulle rocce di Miroglio.

La prende in consegna Mario Ardù, il brillante sottotenente di cavalleria, che sale ad arroccarsi al baraccone sulle pendici del Mindino.

Sullo sperone di Tagliante Bogliolo scava postazioni e trincee e fa addestramento tattico agli uomini dall'alba al tramonto.

Martinengo si è annidato come un'aquila sulle creste più alte dell'Antoroto e guarda con un occhio Val Casotto e coll'altro la sua Val Tanaro.

Ma la squadra di Pamparato perde il suo Comandante.

Alla caserma Galliano, in Mondovì, cade il sottotenente Sciolla, uno dei campioni di quei giorni, uno di quelli che costringeva i fascisti dei posti di blocco a togliergli la sbarra. Estroso, spirito di artista, brillante in ogni sua espressione. Una raffica lo ha colpito in pieno petto ed è spirato col viso sorridente.

Val Casotto nel giro di un mese diventa una roccaforte.

Ignazio Vian, il già leggendario combattente di Boves e di S. Giacomo, è venuto a presidiare la Val Corsaglia.

Pippo in Val Mongia si sente robusto poiché ha inferto una dura lezione ai tedeschi che sono venuti ad attaccarlo fino a Viola.

Il Val Tanaro è tutto un fermento.

D'ogni parte giungono le nuove reclute; anche dalle regioni più lontane.

Alla fine di febbraio il complesso conta circa un migliaio di uomini armati e le azioni offensive assumono sempre più il carattere di vere e proprie battaglie.

Mancano le coperte, le scarpe, i viveri sono scarsi.

Ma lo spirito è alto, la fede fa compiere dei prodigi. Scalzi ed in giacchetta i "ragazzi" montano di guardia nella tormenta e ancora si arrabbiano se, finito il loro turno, sono lasciati a casa quando c'è un'azione.

Tutti alpini, tutti degni della penna, tutti meravigliosi alpini.

26 febbraio.

A sera annunciano da Garessio che 150 tedeschi hanno occupato la cittadina e si accingono a saccheggiarla. Bisogna punire i saccheggiatori. Settanta uomini scelti tra i vari distaccamenti devono convergere per l'alba su Garessio.

La marcia d'avvicinamento dura tutta la notte. Si sprofonda nella neve molle fino alla cintola.

Si è in ritardo.

Non importa; non importa neppure se i tedeschi anziché 50 sono 400, neppure ce si accolgono con violento tiro di mortai.

Bisogna buttarli fuori, bisogna andare avanti, ancora avanti per tirare meglio.

Ecco, scappano, scappano tutti.

Bogliolo coi suoi uomini è come sempre ammirevole. Calmo ed ardente , insieme, duro come una roccia si fa sotto con la perizia del vecchio combattente e poi scatta "a bombe a mano". Tutti i suoi uomini conoscono questa frase che ormai lo definisce "a bombe a mano". E' una sua mania come quella di voler uccidere tutti coloro che parlano troppo e tutti quelli che portano la zazzera.

Garessio è il nome di una nostra grande vittoria, come Ceva, come Nava, dove per tre giorno Martinengo ricaccia nei burroni i tedeschi che tentano di riprendere i forti conquistati all'arma bianca come molti altri posti.

Molte vittorie e molte sofferenze e molto sangue ma s'è sempre tirato avanti strappando la vita con i denti, tra la neve, tra i colpi, sempre.

L'alto comando tedesco vede ad un certo punto urgente la necessità di condurre un'azione a fondo contro la Val Casotto che sta diventando un gravissimo pericolo. Piantata come un triangolo di fuoco tra la Val Tanaro, la Val Corsaglia e la piana di Lesegno-Ceva-Mondovì intercetta quasi completamente le vie di comunicazione tra il Piemonte e la Liguria.

Per largo raggio nessun tedesco è tranquillo, né di giorno né di notte.

Tale efficienza e tali ottimi risultati sono stati ottenuti mediante la perfetta organizzazione militare dei reparti, la disciplina e soprattutto l'esempio degli ufficiali.

Le forze sono divise in gruppi agli ordini di un comandante e tengono le posizioni dello schieramento difensivo. Ogni gruppo, che assume il nome di distaccamento, dipende direttamente dal Comando Valli.

Servizio telefonico perfetto, grazie al compagno Cigliatti dirigente tecnico. Officina per armi ed automezzi a cui Fubini si dedica con passione.

Ospedaletto da campo catturato al completo ai nemico ed impiantato con amore quasi morboso dall'irrequieto dottor Re.

Un piccolo corpo d'esercito accerchiato nella neve alta della Navonera, dell'Antoroto, dell'Alpet.

I Vecchi di Miroglio sono tutti assieme e costituiscono la "Squadra di ferro", la squadra dei migliori, dei primi. Ora sono quasi tutti morti, uno qui uno là, senza che quasi ce ne accorgessimo. A Casotto c'è ancora "Parin" il vecchio che dopo 1'8 settembre era stato tra i primi ad arrivare portandosi due fucili 91. Ogni tanto si lamentava per la razione: quella del vino era sempre scarsa.

13 marzo 1944.

I tedeschi hanno fatto uno spiegamento di forze che fa presagire una giostra piuttosto intensa. Le notizie giungono come uno stillicidio implacabile; ad uno ad uno, la meticolosità teutonica chiude tutti i varchi, intercetta ogni strada, ci vuole sterminare tutti.

Non bisogna disperare.

Tutti alpini noi siamo, la montagna è la nostra grande amica, è la nostra mamma.

Lì ci sarà da combattere; ebbene, la vedremo! Questi monti sono nostri; facciano quello che vogliono, loro, gli onnipotenti; manco coi "tigre" ed i loro pezzi da 155 ci impressionano.

Gli effettivi di due divisioni tedeschi sono distribuiti tra la Val Tanaro e la zona Ceva-Mondovì.

Hanno molti cannoni ed hanno gli alpenjager, vestiti di bianco, i dannati.

13 marzo 1944.

Comincia, cannonate.

Non è ancora l'alba. Quello che succede poi è un qualcosa di terribile e di grande.

Giorni nella neve attaccati alla mitragliatrice senza mangiare.

La "cicogna" vola per individuare le nostre postazioni.

"Ragazzi, mille" lire di premio a chi la sbatte giù, e chi vince paga da bere". Bogliolo è sempre lui, non scherza, picchia sodo. Immobilizza le autoblinde che si sono spinte fino a Casotto.

Si parte per andarle a prendere, ma gli alpenjager stanno già scendendo dalla colla di Garessio.

Il dottor Re, quel ragazzo dall'espressione angelica è stato un eroe, non ha abbandonato i feriti. Lo uccideranno a Ceva assieme ad Enrico Valvassura; sarà sempre sorridente.

Da Tagliante a Perabruna, all'Antoroto.

Bogliolo fa da retroguardia e si attarda per colpire meglio il nemico incalzante; tanto non si lascia accerchiare finché ha bombe a mano. Con quel sistema lui passa dappertutto.

Poi Val d'Inferno; i piedi sono legati in stracci di coperta perché le scarpe non ci sono più.

Quanti giorni sono passati? Non li ha contati nessuno, non c'è stato tempo.

Ma la fame di cinque giorni si fa sentire, ma le armi dopo cinque giorni di fuoco non hanno più munizioni.

Il cerchio nemico si fa sempre più stretto, non c'è più scampo, bisogna evadere dalla morsa di ferro.

Si cerca di rompere di forza; la barriera è insuperabile.

Fubini si stende a dormire l'eterno sonno nella neve dopo aver sparato l'ultimo colpo del suo moschetto; Gavirati preferisce precipitarsi e sfracellarsi sulle rocce piuttosto di cadere in mano del nemico.

Bisogna disperdersi negli anfratti, nelle crepe della montagna per muovere di notte, con cautela, cercare di filtrare tra le maglie, guadagnare la pianura, la vita.

Dopo tanto frastuono, al settimo giorno, Val Casotto tace.

Ma gli alpenjager pattugliano ancora dappertutto, frugano dappertutto; di notte i riflettori inseguono gli ultimi dispersi sulla montagna. Accanto ai morti sul campo, che la rabbia teutonica ha proibito alla pietà dei valligiani di seppellire, vegliano i pochi superstiti, ignari l'uno dell'altro.

Con me erano rimasti Perico e Italo Cordero.

Trascorsi altri dieci giorni, fra le creste dell'Antoroto, sfiniti dalla fame, barcollanti per la febbre, tentammo di guadagnare il piano.

Tre notti e tre giorni impiegammo per compiere il cammino di poche ore. Alfine arrivammo.

Era il crepuscolo e su un piccolo rialzo non ancora verde gli ultimi raggi di un sole di fuoco cingevano come in un'immensa gloria di luce una cappelletta bianca e solitaria. Più in su la neve scintillante come di innumerevoli perline, più in giù la terra ancora spoglia, ancora dura e fredda. Il limite era come segnato tra la montagna sacra per il sangue partigiano e la pianura forse ignara. La pianura di chi non sa vivere da buono. Ci gettammo senza volerlo ai piedi dell'Immagine e pregammo senza saperlo, a lungo.

E promettemmo ancora di continuare fino alla fine.

Qualcuno ha criticato Val Casotto; non gli abbiamo risposto e non gli risponderemo mai.

Abbiamo perduto circa 400 uomini tra i quali quasi tutti gli ufficiali.

Ceva ha assistito alla fine superba di questi partigiani ed è forse per questa prova che è sempre rimasta unicamente vicina a noi.

I tedeschi stessi rimasero impressionati per il comportamento delle loro vittime. Forse si sono fatti tradurre quelle parole che il sottotenente Ruocco aveva scritto sul muro: "Niente di male, niente di brutto".

Sono poche parole che racchiudono il tesoro di un animo grande.

E' con questi uomini che noi abbiamo conquistata la libertà, è per il loro sangue che possiamo oggi sperare ancora, dobbiamo tutto a loro.

Noi non abbiamo dato che parte di noi stessi. Loro hanno dato tutto.

E non hanno chiesto nulla. Forse hanno pensato: "Italiani, Europei, fratelli, compagni che cosa importa come ci chiamano? Che cosa importa chi siamo noi? Che cosa importa tutto ciò che si dice e che non si dice? Siate felici; voi, fratelli, compagni, siate felici; voi potrete vedere il giorno in cui il popolo sarà libero".

"Rimanete uniti come siamo uniti noi ora davanti al plotone che ci dovrà uccidere. Prendetevi per mano così come facciamo noi e andate avanti, tutti amici senza più odiarvi".

A Ceva hanno fucilato Giacobini. Il compagno Giacobini col quale parlavamo di cose da farsi dopo la guerra partigiana. Giacobini era comunista e gli volevamo bene per quella sua tranquilla sicurezza in ciò che pensava. Per quella sua onesta maniera di esporre i suoi principi Anche lui combatteva come noi e ci voleva bene.

A Cairo Montenotte, con Ruocco hanno fucilato Contini e Dacomo dopo averli tenuti per un mese sepolti in una cella sotterranea; e alla fucilazione hanno portato Quaranta, col suo viso di asceta, con la ferita ancora sanguinante, con le manette ai polsi, avvolto in un lenzuolo come in un sudario.

Con l'attacco di Val Casotto anche la Val Corsaglia era stata attaccata.

C'era Vian, con pochi uomini e poche armi.

"Capitano, non abbiamo più munizioni!".

"Che volete dire con ciò? Non rimane forse la neve per noi? Ebbene combatteremo a palle di neve".

Il sergente Antonioli resiste fino all'ultimo col suo mitragliatore. Rimane solo, non si muove. Poi tace, la sua arma non canta più. Se ne sarà andato? No, Antonioli è rimasto fermo a quella finestra che guarda la valle, è rimasto con l'arma stretta al corpo. Rimarrà sempre a Fontane come simbolo della nostra guerra.

Il capitano Vian ha resistito a Fontane perché l'aveva promesso.

L'aveva promesso e quindi non c'era da discutere.

Poi è venuto sulle Langhe; ad Alba, a Bra lo ricordano.

Poco dopo è preso a Torino.

Chi ha conosciuto il capitano Vian? La gente di Boves lo conosce bene e non lo dimentica certo in questi giorni.

Lo conoscono i vecchi partigiani che erano assieme a lui, a Dunchi a Franco ad Aceto, ai tempi dei tempi.

Io non mi sento di fargli alcun elogio, non lo vorrebbe.

Vian era uno di quegli uomini che emanano luce, che sono nati per insegnare agli altri la via.

In carcere, per la sua grande onestà, riesce a dubitare anche di se stesso, delle sue forze. Teme di non sopportare le torture. Si taglia le vene e scrive sul muro della cella "meglio morire che parlare". E' curato e guarisce. Poi lo impiccano ad un albero in corso Vinzaglio.

A Boves la gente ha scritto sui muri "W Vian". Quel "Viva" assume il valore di accorato desiderio; il desiderio senza speranza eppure espresso: "Vorremmo che fosse ancora vivo".

Anche Val Tanaro e la Val Mongia sono investite dalla bufera che tutto sconvolge seminando lutti e rovine nei villaggi alpini.

La gente guarda sgomenta e inorridita; il terrore fa chiudere gli usci in faccia al partigiano lacero e stanco che chiede un pezzo di pane e un bicchiere di acqua.

Le donne di Ceva, di Ceva partigiana che ha tutti i suoi figli sui monti, salgono furtive a portarci i viveri che sottraggono alla loro scarsa razione.

E raccontano: "Oggi ne fucilano altri quattro", "Oggi altri sei".

Ci spingiamo sui poggi di Ceva per dare l'ultimo saluto ai compagni che non vedremo più.

Siamo rimasti in trenta.

Ci guardiamo l'un l'altro silenziosamente negli occhi, negli occhi che non hanno lacrime ma bruciano di sofferenza.

Guardiamo le nostre armi che non hanno più cartucce mentre crepitano le Stajer del plotone di esecuzione.

Non abbiamo più nulla, non possiamo più fare nulla.

Tutto abbiamo perduto, anche la speranza.

Però ci rimane la fede.

Gli ultimi incendi dei casolari alpestri divampavano ancora quando si decide il trasferimento nelle Langhe.

Lasciamo la montagna con accorata tristezza, ché in montagna lasciamo tanta parte di noi.

Mute, con passi felpati, al chiarore delle tenebre, trenta ombre sfilano per la piana di Lesegno in mezzo alle pattuglie tedesche e attraversano il Tanaro.

E' la notte del 31 marzo 1944.

La decisione di spostarsi nelle Langhe era già in pectore da qualche tempo e a lungo si erano commentati i vantaggi di una dislocazione più centrale rispetto all'area piemontese.

Altri sensibili vantaggi erano la facilità di vettovagliamento e del movimento che assicuravano da una parte una larga autonomia e dall'altra la possibilità di manovrare ampiamente.

Le Langhe ospitali accolgono così quel gruppetto di reduci e da quel giorno divengono il "covo dei banditi".

La gente ci guarda con curiosità.

Per tanti giorni ha sentito rombare il cannone a Val Casotto.

Chi si è spinto verso Mondovì o Ceva ha visto scendere dalle Valli teorie di ambulanze cariche di feriti e autocarri carichi di morti, centinaia di tedeschi morti.

Hanno sentito dire che i banditi di Val Casotto si sono battuti fino all'ultimo e sono stati sterminati.

Ci guardano ora, non si capisce se con più incredulità od ammirazione.

Non dicono molte parole, ma noi capiamo ciò che essi vorrebbero dire: "le nostre case sono le vostre".

I vecchi della montagna ci terranno sempre a far sapere che sono stati a Val Casotto.

Ma intanto tutto è da rifare, tutto è da riorganizzare ancora una volta.

Anche il collegamento col Comitato è andato perduto. Anche Guido Verzone hanno catturato che sapeva raggiungerci, sempre, dappertutto.

A Torino il processo Perotti.